La leggenda stessa della fondazione di Roma e dei due gemelli salvati e allevati da Acca Larenzia, chiamata la lupa, o da una lupa vera e propria, ci porta immediatamente al termine che indicava, a Roma, la prostituta.
Secondo Aulo Gellio (Noct. Att. VII, 7, 5), Acca Larenzia corpus in vulgus dabat.
Da tale nome deriverebbe quello del lupanar, la casa di tolleranza. La più antica cortigiana di Roma fu, secondo alcuni, Flora, che esercitò ai tempi di Anco Marzio e che poi sarebbe stata divinizzata. In suo onore furono istituiti i ludi florales. Narra Lattanzio (Div. Inst. I, 20): Flora, cum magnas opes ex arte meretricia quæsivisset, populum scripsit hæredem, certamque pecuniam reliquit cuius ex annuo fœnore suus natalis dies celebraretur, editione ludorum quos appellant Floralia. Flora, avendo acquisito grandi ricchezze con la professione di meretrice, nominò erede il popolo lasciandogli un capitale affinché, con gli interessi maturati, ogni anno, nell'anniversario della sua nascita, fossero celebrati dei giochi, che vengono chiamati Floralia. Durante tale festa le cortigiane uscivano di casa e procedevano in corteo, precedute da suonatori di trombe e coperte da ampie vesti, sotto le quali erano nude e ornate di tutti i loro gioielli. Si riunivano al Circo, sotto gli occhi della gente che faceva ressa intorno ad esse e si spogliavano, mostrando, compiacenti, tutto ciò che gli spettatori chiedevano di vedere. Davanti alla folla in delirio si esibivano in danze, lotte e acrobazie, finché entravano nel circo degli uomini, anch'essi nudi e... lasciamo all'immaginazione l'ovvia conclusione dello spettacolo! (Dufour, 1851 368-369). La Venere ericina, di cui abbiamo parlato all'inizio, fu oggetto di culto anche a Roma, e veniva festeggiata il 23 di Aprile. Nell'Urbe vi erano due templi ad essa dedicati. Quello presso Porta Collina era frequentato anche da prostitute (Ov., Fasti, IV 863-876). Il Monte Erice col santuario fu addirittura riprodotto su un denario romano emesso dal magistrato C. Considius Nonianus nel 56 a.C. Ne riportiamo l'immagine tratta da acsearch e proveniente dagli archivi del Classical Numismatic Group. Non possiamo affermare con certezza che a Roma esistesse quella forma di prostituzione sacra che avevamo trovato in Grecia, cioè organizzata e svolta all'interno del tempio, quale pratica cultuale. Negli autori latini non troviamo traccia di tali pratiche. Che Venere fosse invece venerata e il suo tempio fosse frequentato dalle prostitute è invece certo, e ovviamente tale frequentazione non era sempre e soltanto una pratica devozionale, come possiamo desumere da un passo di Plauto (Pœn. Act. I, LII, 339-340): Quia apud aedem Veneris hodie est mercatus meretricius: eo conveniunt mercatores, ibi ego me ostendi volo. Poichè oggi presso il tempio di Venere c'è il mercato delle prostitute: vi si riuniscono i mercanti, e lì voglio esporre me stessa. La prostituzione a Roma fu più diffusa che in Grecia, e a ciò contribuì certamente la sua dimensione di grande città. Ma le caratteristiche della società romana, tradizionalista e austera, impedirono che si affacciassero sulla scena della Storia quelle grandi figure di etére che invece caratterizzarono la Grecia classica ed ellenistica. Possiamo dire quindi - absit iniuria verbis - che le prostitute romane furono molto più numerose che in Grecia, ma che il loro livello fu medio-basso. Esse svolgevano il loro lavoro o adescando i clienti lungo le strade (meretrices) o davanti alla porta della propria abitazione o del postribolo (postribulæ). La loro retribuzione era commisurata alla categoria e al tipo di prestazione. In senso spregiativo le diobolariæ e le quadrantariæ erano chiamate così poiché si accontentavano di due oboli o di un quadrante. Secondo uno studio approfondito sull'argomento (McGinn 2004) la media dei prezzi variava da due a sedici assi. Gli storici distinguono diverse categorie, oltre a quelle citate (meretrices e postribulæ): alicariæ, blitidæ, casalides, copæ, forariæ, famosæ, lupæ, quadrantariæ (Dufour 1851, 439 segg.). Non è il caso di citarle tutte né di approfondire il significato degli appellativi. La prostituzione a Roma era regolamentata dalla legge e tassata; le prostitute dovevano ottenere un certificato, denominato licentia stupri ed essere registrate presso l'ufficio dell' Edile. Una particolare categoria di monete interessa da sempre i collezionisti e i buoni esemplari di esse superano oramai i prezzi di molte monete romane rare: si tratta delle spintriæ, che si ritiene fossero i gettoni d'entrata ai bordelli, e corrispondenti ai diversi tipi di prestazioni. Essi recano al D\ un'immagine e al rovescio un numero romano, che sembra corrispondesse al numero della stanza dove si potevano ottenere specifiche prestazioni. Non dobbiamo tuttavia pensare che la prostituzione fosse esclusivamente femminile e che i clienti fossero soltanto maschi, nei bagni pubblici, stando a Giovenale (VI.421-423) i massaggiatori erano molto esperti nel procurare piacere alle matrone. cum lassata graui ceciderunt bracchia massa, callidus et cristae digitos inpressit aliptes ac summum dominae femur exclamare coegit. finché le braccia le cadono spossate dai pesi e un massaggiatore volpone le preme le dita sul sesso costringendola a dimenare pube e cosce. Una particolare categoria di cortigiane erano le delicatæ. Secondo il Dufour appartenne a questa categoria Flavia Domitilla (Maior), moglie di Vespasiano e madre di Tito e di Domiziano. Il ritratto di Domitilla che qui riportiamo è tratto da acsearch e proviene dagli archivi del Classical Numismatic Group. Un altro personaggio femminile che emerge dalla Storia romana è Clodia, nata intorno al 94 a.C., figlia di Appio Claudio Pulcro e moglie di Quinto Metello. Secondo alcuni autori essa va identificata con la Lesbia di Catullo (Schwab 1862, 71): concludere licet Clodiam, cum eius amore Catullum inflammaretur, iam Q. Metelli uxorem fuisse. (è lecito concludere che Clodia, quando infiammò Catullo col suo amore, fosse già sposata con Q. Metello). Cicerone (Pro Cæl. 49) la accusò indirettamente di meretricio: Si quae non nupta mulier domum suam patefecerit omnium cupiditati palamque sese in meretricia vita collocarit, virorum alienissimorum conviviis uti instituerit, si hoc in urbe, si in hortis, si in Baiarum illa celebritate faciat, ... Se una donna senza marito avesse aperto la sua casa ai desideri di chiunque, e si fosse data apertamente a una vita da prostituta, a frequentare festini di uomini a lei sconosciuti; e se lo facesse così in città, nei giardini, nei famosi bagni di Baia, ... Ma forse la prostituta più famosa della buona società romana fu Valeria Messalina, 25-48 d.C., la terza moglie dell'imperatore Claudio. Ci viene descritta come una donna dissoluta, ma noi la citiamo perchè, a causa della sua passione per gli uomini, frequentava i bordelli di Roma sotto il nome di Licisca. E lì faceva a gara con le più famose cortigiane a chi sarebbe riuscita ad avere il maggior numero di uomini in un giorno. Alla fine vinse, totalizzando 25, ma, racconta Giovenale (VI, 130): lassata uiris necdum satiata recessit (priva di forze, ma non ancora soddisfatta, smise). Riportiamo una moneta in bronzo col ritratto di Messalina, dagli archivi del Classical Numismatic Group Roma non ci offre quel gran numero di biografie relative a prostitute di classe, compagne dei loro clienti anche negli interessi culturali e artistici. Evidentemente, forse a causa del ruolo subalterno attribuito alla donna romana, la sua influenza sulla cultura e sulla politica si esercitava senza rumore, quasi di nascosto. Il fatto che non ci fossero in Roma molte famose prostitute non significa che la moralità fosse seguita, anzi: sono numerose le testimonianze sulla dissolutezza delle romane, specie nella classe dominante. ma è la prostituzione, non l'immoralità, l'argomento che abbiamo scelto. Le dissolute matrone romane erano tuttavia ben diverse dalle etére della Grecia classica ed ellenistica, e il loro livello culturale e, vorremmo dire, di umanità era certamente più, basso. La nostra simpatia, dovendo scegliere, va, anche in questo caso, alla Grecia. |
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