Il vino è nato prima della moneta. Il vino è nato con l'uomo. Il vino c'è da sempre, ma ha avuto notevoli mutamenti con la capacità di adattarsi alla richiesta della società e del costume degli uomini. Il vino è l'unica bevanda che ha avuto, per quasiasi pensiero religioso o filosofico, un forte significato metaforico quale il sangue, la forza, l'ebbrezza, l'amicizia, l'amore.
Il proverbio "In vino veritas" è stato attribuito al poeta greco Alceo, e si riferiva all'azione del vino quale forza disinibitrice di ogni falso ritegno a dire la nuda verità senza menzogne.
La parola "vino" deriva dal latino "vinum" e dal greco "oinos", parole che a loro volta deriverebbero dal vocabolo pontico "voino", che confermerebbe l'ipotesi sul luogo di origine del vino, cioè la regione collinosa tra il Mar Nero ed il Caucaso meridionale. Man mano che i popoli sono passati dal nomadismo alla vita stanziale, la coltivazione e lo sfruttamento della vigna si sono estesi dall'Asia Minore fino all'Egitto. Numerosi reperti lo provano su testi cuneiformi mesopotamici ed egizi. A Sumer, attorno al IV° millennio a.C. ci fu la prima organizzazione sociale con una forma di scrittura perfezionata e con una grande efficienza nel garantirsi gli approvigionamenti alimentari, fra i quali appunto il vino.
Il più antico recipiente di vino conosciuto risale a circa 7.000 anni fa ed è stato trovato in Iran, nei Monti Zagros, dove tuttora l'uva selvatica cresce spontanea.
Sembra ormai sicuro che la vite cresceva già in Europa durante il Miocene (25-7 milioni di anni fa), quando comparvero i primi ominidi nel continente africano. A partire dal Monte Ararat (Caucaso), la viticoltura si è diffusa in Mesopotamia, in Medio Oriente, nel Mediterraneo - dapprima in Egitto - e da ultimo nel nord-Europa.
La diffusione continuò anche verso l'Estremo Oriente. La coltivazione della Vitis Vinifera fu introdotta in Cina dall'Asia Centrale ad opera del Generale Zhang Qian nel II° sec. a.C., ma fu solamente sotto i Tang (618-907) che cominciò la propagazione. Dal Turkestan vennero introdotti nuovi tipi di uva da vino e relativa conoscenza dei metodi di vinificazione. Negli antichi testi cinesi il tipo più menzionato è quello chiamato "capezzoli di cavalla", per la sua forma allungata, distinto dal tipo "perle di drago", per la sua forma sferica.
La Bibbia non cita mai il vino prima di Noè, che fu trovato ubriaco dai figli. Ed è qui che per tradizione si colloca l'origine della vite nel Caucaso, tra Turchia, Armenia e Iran, dove si sarebbe arenata appunto l'Arca.
Ebbrezza di Noè - Giovanni Bellini 1514 - Museo di Besançon
La nascita del vino
La vera viticoltura, quella intenzionale, è iniziata con la selezione dei vitigni e successivamente con la potatura circa nel 6000-5000 a.C. Questo fatto ha reso domestica la vite naturale. I primi popoli che iniziarono questa lavorazione furono i Caucasici, seguiti da Persiani, Sumeri, Ittiti, Assiri, Babilonesi, Fenici, Ebrei, Arabi, Egizi, Greci, Romani. Insomma tutti in concomitanza con le grandi civiltà.
Le tavolette trovate durante gli scavi di Lagash ed Ur, grandi città sumere, indicano che circa nel 3000-3500 a.C., si coltivava la vite in piccoli vigneti nelle aree più vicine alle sorgenti del Tigri e dell'Eufrate, benchè le vere bevande alcoliche fossero ricavate dai datteri e dall'orzo, più confacenti al clima del posto. Il vino comunque, pur poco sviluppato in Mesopotamia, aveva un forte significato simbolico sia sulla sessualità, sia perchè mostrava la potenzialità dell'uomo di saper intervenire sulla natura. Il vino era presente anche nei sacrifici assieme al pane e libagioni, perchè il colore rosso era simile al colore del sangue umano.
Con la caduta dell'Impero sumerico, all'inizio del II° millennio, inizia l'ascesa di quello assiro e, come ci viene raccontato dal "Codice di Hammurabi", vengono descritte delle particolari barche utilizzate per il trasporto di "recipienti di vino di Fenicia", anche se a Babilonia la birra era la bevanda più consumata. Pare che i vigneti fossero nelle mani dei sacerdoti che utilizzavano il vino nelle funzioni cerimoniali, quale simbolo sacrificale.
Nel I° millennio, Ninive divenne famosa per i suoi vini. Nei primi bassorilievi rinvenuti nei secoli precedenti, si potevano notare le processioni con uno sfondo di palme da datteri, ma fra i bassorilievi di Ninive, ai tempi di Assurbanipal (668-626 a.C) si vedono il re con la sua consorte assisi sotto un pergolato di vite, intenti a bere quasi certamente vino di uva.
Assurbanipal beve in una coppa con la Regina. Calco in gesso, arte assira VII° a.C. British Museum, Londra
Con la distruzione delle città assire nel VII° secolo a.C., con la nascita dell'Impero babilonese (Nabopolassar 625-605 a.C. e Nabuccodonosor II° 604-562 a.C.) e la successiva conquista persiana di Babilonia nel 539 a.C. da parte di Ciro il Grande, ci viene raccontata da Erodoto la grande abbondanza di vigneti attorno alla città.
La prima prova dell'esistenza della viticoltura in Siria risale al 3000 a.C. ed è rappresentata dai semi di uva trovati a Gerico. Vigneti erano comuni anche in Palestina. Sono citati sia sul Talmud che sulla Bibbia come elementi facenti parte della vita ebraica.
Il vino in Palestina
La Bibbia scrive che la Palestina è paese di vigne, di grano e di mosto. La parola ebraica che indica il vino ("yayin") è di origine indo-europea, probabile influenza di popoli uro-altaici. L'Egitto controllò quest'area a partire da III° millennio a.C., fino al termine del II° millennio, quando fu conquistata dagli ebrei. Fece poi parte degli imperi Assiri, Babilonesi e Persiani dall'VIII° sec a.C., fino all'83 a. C. quando fu occupata dai Romani.
Nel IV° secolo la Palestina divenne provincia bizantina fino al 634, anno della caduta di Costantinopoli e della conquista araba. Dai testi egiziani si evince che nel 2000 a.C. la Palestina era una terra rinomata per i suoi vini dolci e forti, speziati e spesso mescolati a mosto. Prestigioso era il vino di "Keruhm" e le vigne di Hebron.
Si racconta che Sinuhe l'Egiziano, vissuto durante la XIIa dinastia avesse detto della Palestina: "In quella terra vi sono fichi e uva ed il vino è più diffuso dell'acqua".
Ma è soprattutto l'antico Testamento a darci informazioni sulla viticoltura palestinese. Il termine yayin, per indicare il succo fermentato della vite, vi compare per ben 141 volte. Il Testo ci racconta che esistevano speciali miscele fatte con il vino. Vino "vecchio", così definito quando aveva più di un anno, ("stravecchio", con più di tre anni) mescolato con acqua e balsamo era usato specialmente dopo il bagno. Frequente era l'uso di vino speziato o miscelato con miele e pepe. Si faceva anche uso di vino emetico, prima dei pasti e di vino di datteri. Gettando orzo nel vino si otteneva un buon aceto. Si beveva vino "nuovo" ("tirosh"), vino "forte" ("shekar"), vino "mescolato a mosto" ("ashishah") e altri miscugli.
La Bibbia riporta anche vini di nomi celebri come il "vino di Hesbon", il "vino Reale", quello di "Sibmah", di "Elaleh", del "Libano", di "Helbon", di "Uzal".
Tempio di Bacco, fatto costruire da Antonino Pio
nel 150 d.C. ; Baalbek, Libano
La regole ebraiche per fare il vino erano molto rigorose:
non doveva contenere ingredienti proibiti come grassi, vitamine, conservanti ricavati da animali proibiti (al massimo era ammessa la chiarificazione con l'albume dell'uovo sbattuto); bisognava evitare qualunque elemento di lievitazione; doveva essere lavorato esclusivamente da ebrei.
Per la Bibbia, il vino è simbolo di saggezza, di prosperità e pace ed assume un rituale cerimoniale importante con olio, farina, carne di ovini e bovini, mentre è utile anche da un punto di vista pratico come per la tintura delle stoffe e per i medicinali.
Il primo libro di Samuele ci informa su due tipi di contenitori per il vino, il "nepel" ed il "nod", fatti di pelle di capra o di pecora. Il vino era bevuto da recipienti come il "mizrak", una sorta di scodella, ed il "kos" un tipo di coppa, forse di origine greca.
È molto probabile quindi che da Siria e Palestina, il vino sia arrivato in Egitto, attecchendo vicino alla costa e nel delta del Nilo.
Il vino in Egitto
In Egitto le testimonianze vinicole sono molto numerose tramite pitture tombali, papiri e statue. Come in Mesopotamia, anche in Egitto la birra era la bevanda alcolica principale, ma il consumo di vino era ugualmente importante ed era ricavato dai datteri e dai melograni. Ma si faceva uso anche di vino d'uva.
La pratica egizia di conservare il vino in giare di ceramica sigillata ci ha fornito moltissime indicazioni compresa la località di origine dei loro vini. La maggior parte proveniva dal nord del delta del Nilo e da Memphis.
Le pitture tombali di Tebe, vicino a Luxor, attorno al 2500 a.C, indicano chiaramente i tipi di vigneti esistenti e i metodi di vinificazione degli Egiziani. Le uve nere sembra fossero le più diffuse e pare fosse abitudine miscelare il vino con acqua o altri aromi. Quasi tutte le pitture rappresentano le viti a pergolato con armatura formata da pali forcuti. L'uva veniva raccolta a mano e messa in ceste di paglia. Poi veniva schiacciata con i piedi e pigiata con un palo. Il vino era versato in giare che poi venivano sigillate.
Durante il regno di Ramsete III° (1197-1165 a.C.) furono impiantati molti vigneti in tutto il paese, anche se gran parte del vino continuava ad essere importato. Secondo numerosi autori romani, i vini egiziani non erano di grande qualità ed Erodoto afferma che da tutta la Grecia e dalla Fenicia, due volte all'anno si importavano in Egitto recipienti di argilla pieni di vino.
Nel Medio Regno (1540-1070 a.C.) oltre al vino del delta del Nilo si diffuse anche il vino delle oasi occidentali, fra i quali il celebre Copto. Questo periodo, molto fiorente, consentì agli Egizi importanti commerci anche lontani, come nell'attuale Palestina, Cipro e vicino Oriente.
Raccolta dell'uva, pittura murale che è stata rinvenuta nella tomba di Nakht, presso Tebe, ca. 139 a.C.
All'inizio dell'anno 1000 a.C. gli Egizi iniziarono a bere vini libanesi, che vennero commercializzati dai Fenici in tutto il Mediterraneo. Infatti quando costoro, fuggendo da Tiro, conquistata dagli assiri, fondarono Cartagine, il vino era già noto in Nord-Africa e si incominciava a coltivarlo anche in altri paesi costieri.
Nell' VIII° secolo a.C. si ebbero notevoli scambi commerciali con la Grecia attraverso il porto di Naucrati, colonia greca fondata presso il delta del Nilo. Il vino greco veniva scambiato con grano egiziano.
Il vino in Egitto era dunque molto popolare nei banchetti e nelle feste, dove si beveva senza ritegno portando con sè una forte dose di erotismo. Questo fatto continuerà anche successivamente con i greci e quindi con i romani.
Sifoni usati nel 1450 a.C.
Contemporaneamente all'Egitto, a Creta, fioriva la cultura minoica, ma mentre nel 1700 a.C. anche su quest'isola si beveva la birra ottenuta dall'orzo, verso il 1500 a.C. venne affiancato il vino importato dalla Siria, dall'Egitto e dalla Fenicia. Così il vino divenne una tradizione nell'isola. Da qui poi le viti passarono in Grecia, dove si beveva un vino forte, zuccherato e denso, sempre allungato con acqua. Continuando il suo percorso, il vino giunse poi in Sicilia e nell'Italia meridionale. Anche la Provenza e la Spagna devono la viticultura ai Focesi, greci dell'Asia minore.
Il vino in Grecia e Magna Grecia
In Grecia, il vino, già in epoca micenea, era usato non solo per esigenze rituali, libagioni e per il culto di Dioniso, ma fece parte da subito dell'alimentazione del popolo greco. Assieme al grano ed alle olive era uno dei prodotti più importanti per l'uso comune ed anche per l'esportazione. Non tutto il vino però era di ottima qualità: i poveri lo bevevano con l'aggiunta di acqua alle bucce ed ai vinaccioli dopo l'ultima pigiatura.
Sembra che il loro vino puro fosse imbevibile, veniva così diluito con acqua di mare, spezie e resina. Ciò anche perchè i contenitori non permettevano una sufficiente tenuta ed il vino si alterava facilmente, tendendo a divenire aceto. Per impedire si guastasse, si faceva cuocere il succo d'uva dopo la fermentazione e lo si addensava con l'aggiunta di miele o zucchero di canna.
Quindi i vini greci di norma erano dolci e di alto contenuto alcolico. Il vino era bevuto in tazze tronco-coniche.
Nella Magna Grecia, fondata nell'VIII° sec. a.C., i Greci portarono le varietà "Aminee", perchè introdotte appunto dai Greci Aminei, e le "Apianee", così chiamate perchè attiravano api e mosche (da cui "moscato").
Fra le varietà Aminee ricordiamo l'Aglianico, la Falerna, i diversi Greco, la Falanghina, il Riesling Renano, lo Chasselas, il Meunier.
Fra le varietà Apianee ricordiamo i vari Moscati, le Malvasie.
I Greci diffusero anche la Mareotica, varietà egiziana, che i Romani chiamarono Graeculae.
Nell'isola di Lesbo si produceva l'Omphacites, con uva appassita.
Vini rinomati erano quelli delle isole Chios e Cos.
Si vuole anche ricordare Pramno, luogo famoso per un vino (il Pramnio), mescolato a droghe, offerto dalla maga Circe ai compagni di Odisseo per allettarli e trasformarli successivamente in porci ("per loro mescolava formaggio e farina d'orzo e miele verde con vino di Pramno").
Verso la fine dell'VIII° sec a.C., Esiodo scrive il primo resoconto sull'agricoltura greca e descrive la viticoltura in Beozia, sua terra natale.
Nell'opera di Teofrasto (370-283 a.C.) troviamo il primo vero trattato di viticultura. Le vigne erano basse e non sostenute dalla pergola. La vendemmia avveniva in settembre. Una parte del mosto veniva consumata subito; un'altra parte finiva in cantina, conservata nei "pithoi", che erano grandi vasi di terra a collo largo. Questi vasi venivano interrati per evitare l'evaporazione ed erano cosparsi con resina e pece che davano al vino un sapore resinoso (retzina). Avevano un'altezza che arrivava anche a 3.5 m ed il diametro dell'imboccatura arrivava al metro, tanto che ad Atene durante le guerre civili, alcuni poveri, tra cui Diogene, vi dormivano dentro.
Con la nascita della polis, i cittadini che possedevano pezzi di terra utilizzavano i prodotti per l’alimentazione familiare e praticavano un'agricoltura a coltivazione mista, basata per lo più in grano, ulivo e vite.
A partire dal V° e IV° sec. a. C. inizia una maggior specializzazione agricola, influenzata nell'Attica dal legislatore Solone, che promuoveva la vite e l'ulivo a scapito dei cereali. Con la crescita delle grandi città, aumentò la richiesta di vino, anche in relazione alla creazione delle nuove colonie in tutto il Mediterraneo. Nel 730 a.C. sorse Cuma, nel 734 Siracusa e verso la fine del VIII° sec a.C. Nasso e Messina e altre città come Sibari e Crotone. Così la viticultura si sviluppò molto velocemente. Per l'importanza che aveva assunto la coltivazione della vite, Erodoto chiamò "Enotria" (Terra del vino) l'Italia meridionale.
Verso la fine del V° sec a.C. il commercio del vino diviene una professione. Si comprava il vino in Grecia e lo si rivendeva negli altri paesi.
Nell'VIII° sec. a.C., in Alceo e Focilide, compare per la prima volta il termine greco "Symposium". Platone e Senofonte descrivono i Symposia dell'Atene del V° e IV° sec. a.C. dove si svolgevano dopo cena dibattiti accompagnati da grandi bevute che seguivano regole dettate dal presidente del Simposio, che decideva la quantità d'acqua da mescolare al vino. I simposi erano accompagnati da danze e dal suono del flauto. Per ordine del Symposiarca, gli schiavi versavano tre quinti di acqua e due quinti di vino puro in un'enorme coppa di bronzo. Qui le sbronze erano frequentissime. Le coppe dei convitati non dovevano mai restare vuote ed erano riempite continuamente dagli schiavi con mestoli speciali. Al Symposium partecipavano altri invitati, i famosi parassiti (parassitos= colui che ti siede accanto), che seguivano i personaggi importanti, ma non erano ammesse le donne. Unica donna autorizzata era la suonatrice di flauto.
Insieme al mito del vino, i Greci importarono in Italia anche il culto di Dioniso, ereditato prima dagli Etruschi e poi dai Romani, che assunse via via il nome di Libero ed infine quello di Bacco.
Dioniso, personalità complessa, era contemporaneamente il dio della vite e del vino, ma incarnava anche la forza primaria e generatrice della natura, nonchè il succedersi delle stagioni. Era figlio di Zeus e Semele, sacerdotessa della luna e figlia di Cadmio, fondatore di Tebe. Secondo altri era figlio di Dione, la quercia, lungo il cui tronco la vigna selvatica si arrampica. Gelosa di Semele, Era si travestì da vecchia e le consigliò di chiedere a Zeus la prova che lui era immortale. Dioniso era già stato concepito quando Semele fece a Zeus questa richiesta, che il dio volle esaudire mostrandosi in tutto il suo fulgore. A quella vista Semele morì carbonizzata.
Dioniso e Menade - Ercolano
Zeus, aiutato da Hermes, riuscì a salvare il bambino che lei portava in grembo e se lo cucì in una coscia. Finita la gestazione, Hermes liberò il bambino che venne quindi partorito una seconda volta e lo portò sul monte Nysa dove abitavano le ninfe che nutrirono il neonato col miele e grappoli della vite. Da adulto Dioniso scoprì come ottenere il vino dall'uva e portò la sua scoperta nell'Attica, in Frigia, in Tracia, trascurando però la Mesopotamia perchè i suoi abitanti preferivano la birra. Nel corso di cerimonie orgiastiche, cui partecipavano soprattutto donne che danzavano in modo sfrenato, venivano imitate le Menadi, le indemoniate, che facevano parte del corteo dionisiaco.
Arrivo di Bacco
Quando fu introdotto in Grecia, il culto di Dioniso venne controllato dalle autorità. Fra le prime feste religiose a lui associate erano le "Agrionie", durante le quali le baccanti immolavano un giovinetto. Anche a Chio e Lesbo la festa prevedeva un sacrificio umano, sostituito poi dalla flagellazione.
Nel V° sec a.C. in Attica, Dioniso era festeggiato nelle feste rurali legate alle stagioni: in dicembre quando le viti venivano potate, era celebrato assieme a Demetra e a Core nelle feste "Haloe"; a gennaio-febbraio c'erano le "Lenee", le feste della pigiatura dell'uva. Alla fine di febbraio si svolgevano le "Antesterie", festa della fertilità primaverile. Ma le feste più importanti erano le "Grandi Dionisiache" alla fine di marzo ed i "Misteri Eleusini" a settembre o ad ottobre, in cui oltre al vino venivano ingerite anche alcune sostanze stupefacenti.
A Roma furono famosi i Baccanali molto popolari a Roma che durarono sino al 186 a.C., anno in cui furono soppressi per il loro carattere fortemente orgiastico. Il culto riapparve negli ultimi anni della Repubblica con le feste viticole istituzionali, i Liberalia del 17 marzo per celebrare il dio Libero-Bacco, ed i Vinalia, festa del 19 agosto per propiziare la prossima vendemmia.
Bisogna però tener presente che i Romani non dettero mai a Bacco la stessa importanza che i Greci dispensarono a Dioniso.
Il vino in Toscana, a Roma e nell’Impero
Per un lungo periodo la viticultura romana fu molto modesta. I Romani poterono però sfruttare l'opera degli Etruschi, anche se assai meno significativa di quella della Magna Grecia. Gli Etruschi non erano grandi potatori e coltivavano le viti "maritate" agli alberi o "viti alberate". Avevano così delle varietà tipiche dell'Italia Centrale come il Trebbiano, il Montepulciano, il Sangiovese. Sembra non vi siano documentazioni di viticultura presso gli Etruschi prima del VII° sec. a. C. e non è noto se appresero le tecniche di vinificazione dai contatti con i Greci.
I semi di vite trovati nelle tombe del Chianti proverebbero che gli Etruschi portarono questa pianta dall'Oriente e l'acclimatarono in Italia, mentre invece secondo alcuni studi recenti sembra che la vite esistesse in Toscana fin prima della comparsa dell'uomo. Trovandola, gli Etruschi colonizzatori dell'entroterra toscano e probabili primi abitatori delle zone del Chianti, l'avrebbero addomesticata da selvatica qual’era. Quindi, non sarebbero stati i navigatori fenici a portare la pianta in Toscana, dove esisteva già: lo dimostrerebbero i reperti di travertino affiorati nella zona di San Vivaldo, dove furono ritrovate impronte fossili della “Vitis vinifera”, che laggiù cresceva spontanea.
Col vino si onoravano i morti, insieme alla danza e al suono dei flauti. Soprattutto nel ceto aristocratico, erano diffuse pratiche religiose in onore di “Fufluns” (Bacco), il dio del vino.
Questi riti segreti e strettamente riservati agli iniziati, grazie all’ebbrezza provocata dalla bevanda, avevano il fine di raggiungere la “possessione” del dio nel mondo terreno, garantendo così in anticipo una sorte felice nell’aldilà.
In mancanza di vini nazionali, trionfavano fra gli aristocratici, i vini greci anche quando vicino a Roma andò diffondendosi la coltivazione della vite che in verità produceva vini modesti. Ê certo che i più antichi vigneti toscani fossero indigeni in parte ed in parte introdotti dall'Oriente mediterraneo, soprattutto dai coloni greci che nell' VIII° sec a.C. importarono la vite non come cultura, già ben conosciuta, ma come bene da commerciare.
I vini bevuti a Roma erano a bassissima gradazione alcoolica, quindi assai facili ad inacidirsi. I vini di lusso erano generalmente cotti e sottoposti a lunghissimo invecchiamento e, per essere poi bevuti, venivano mischiati con almeno il 50% di acqua. I vini importati dalla Grecia, dalle coste africane e dall'Asia Minore erano per lo più trattati con sostanze aromatiche: resine, estratti di erbe, miele, legni odorosi, essenze vegetali, mirra, assenzio profumi e rose.
Marco Porcio Catone (234-149 a.C.) mette la vigna come la prima delle culture della Penisola. L'importanza che egli pone nella cultura della vite e dell'ulivo indica il passaggio da un'economia di pura sussistenza ad una forma estesa di commercio. Così dai piccoli vigneti si passò alle grandi proprietà terriere, dove veniva coltivato questo prodotto con utilizzazione di molteplice manodopera, animali ed attrezzature adatte.
Quando dal 146 a.C. la Grecia divenne provincia romana, iniziò un periodo vinicolo di grandi successi, con l'apparizione di molteplici vini italiani che durò fino agli ultimi tempi di Marco Terenzio Varrone (116- 27 a.C.). Essi , non ancora certi della qualità, puntarono tutto sulla quantità, cosa che estese il consumo alle classi sociali più umili.
A questo punto Plinio il Giovane si lamentava che le cantine non avessero più recipienti per accogliere l'uva, sempre abbondante.
Anche Marziale si lamentava, nel I° secolo d.C. che a Ravenna l'acqua fosse più scarsa del vino.
Erodiano (170-240 d.C) indicava tutta l'enorme quantità di vino che veniva convogliata dalla pianura padana ad Aquileia, per venir poi inviata nelle aree illirico-danubiane.
Mentre per tradizione i vini greci in generale erano ritenuti i migliori, Plinio il Vecchio (23-97 d.C.) scrive nella "Naturalis Historia" che almeno due terzi della produzione totale proveniva dall'Impero ed elenca 91 vitigni diversi con 195 specie di vini. Tra questi 50 li definisce generosi, 38 oltremarini, 18 dolci, 64 contraffatti, 12 prodigiosi.
Catone afferma invece di conoscere 8 qualità di vino, Varrone 10, Virgilio 15, Columella 58.
A quel tempo anche i vini spagnoli venivano molto apprezzati.
Nel 202 a.C. con la sconfitta di Cartagine e di Annibale, le regioni costiere della Spagna erano divenute grandi colonie di oltremare dell'Impero. Nelle province di Tarragona, Andalusia e nella città di Cadice, fondata mille anni prima dai Fenici, il vino era di ottima qualità ed arrivava a Roma in circa una settimana ed era diventato comunissimo e consumato in enormi quantità.
A proposito di Annibale, Polibio narra nelle sue "Historiae" come Annibale nelle pause belliche "sostenne l'esercito con i vecchi vini di cui c’era grandissima quantità in quella provincia" e come i cavalli, colpiti da un'improvvisa epidemia, furono curati con pozioni di vino caldo.
Strabone (63 a.C-21 d.C.), oltre a Plinio, ci dà la distribuzione della viticultura nei paesi mediterranei e del mondo conosciuto. Così parla del Monarite della Cappadocia che rivaleggiava con quelli greci ed in particolare narra di quelli di Cos, Chios e Lesbo che non erano inferiori a nessuno. Ugualmente i vini della Siria nella zona di Laodicea ed anche quelli di Babilonia e della foce dell'Eufrate.
In Italia, la Campania era la terra più fortunata. Si narra che Orazio a Mecenate, suo ospite nomina i 4 vini campani più nobili e gli dice: "Caro Mecenate, tu sarai solito bere Cecubo e Caleno, ma nelle mie coppe non si mesce nè il Falerno, nè il Formiano.
Nella scala dei vini, Plinio assegna al Cecubo il primo posto - vitigno presto scomparso, che cresceva a sud del Lazio in un terreno paludoso inadatto alla vite -, poi al Falerno il secondo posto.
Del Falerno, Ateneo scrive che va bevuto dopo almeno 10 anni di invecchiamento e ne considera due specie, secco e dolce.
Marziale insiste sul colore nero e lo definisce "immortale". Tutti concordano sulla sua generosità.
Vicino a Capua si coltivava il Caleno, esaltato da Giovenale, Orazio e Plinio.
Vicino a Roma si producevano l'Albano, il Sabino ed il Vaientano.
I romani amavano anche il Fondiano, il Vellerano, il Seniano, il Piperno, il Setino.
Altri vini provenivano dall'Abbruzzo quali i Peligni ed i Pretoriani.
Dal Veneto il Preciano ed il Raetico. il Pucinum, del territorio di Aquileia che piaceva molto a Livia, moglie dell'Imperatore Augusto.
Vini tipici campani erano il Massico, il Cumano, il Trifolino, il Sorrentino.
Più a sud il Tarentino, paragonato da Orazio al Falerno, il Mamertino, prodotto nei pressi di Messina e fatto conoscere da Giulio Cesare.
Dalla Sicilia importavano inoltre il Potulanum, il Biblino, il Pollio, il Tauromenitanum, prodotto nell'attuale Taormina.
Di origine greca era lo spumante "Aigleucos" che i Romani bevevano abbondantemente. I dolia, recipienti panciuti che lo contenevano, erano mantenuti a bassa temperatura con acqua fredda per impedirne la fermentazione. Se contenenti altri vini, i dolia venivano tappati ed interrati per 3/4 della loro altezza, che era attorno ai 2 m, dove avveniva la fermentazione. Se il vino ottenuto era torbido procedevano alla chiarificazione usando bianchi d'uovo montato a neve o latte fresco di capra.
I vini di poco pregio non venivano mai travasati, quelli di pregio invece venivano versati in anfore a doppia ansa chiamate seriae o seriolae, munite di un fittone che si conficcava nel pavimento. Potevano contenere da 180 a 300 litri ed erano impermeabili.
Prima del III° sec d.C. le anfore di ceramica erano i contenitori principali utilizzati per il traffico marittimo ed avevano una capacità di una ventina di litri. La capacità delle navi veniva misurata “ad anfore” . Generalmente una nave adibita al trasporto del vino ne poteva contenere 2-3000. La loro chiusura era ermetica con tappi di sughero, sigillati con pece che permettevano l'invecchiamento. Sulle anfore vi era il pittacium, una sorta di etichetta stampigliata, che portava il luogo di provenienza del vino, il nome del produttore e quello del Console in carica.
Anfore romane
Dal ritrovamento delle anfore si è riusciti a ricostruire il movimento dei traffici vinicoli marittimi. Anfore provenienti dall'Italia meridionale sono state trovate fino in Inghilterra del Sud ed in Africa nord-occidentale e lungo il corso di molti fiumi europei, come il Rodano, il Reno, la Garonna, L'Ebro.
Tra il 20 a.C. ed il 10 a.C. l'anfora fu sostituita con un tipo più leggero, ma più capiente, che scomparve anch'esso verso la fine del I° sec. d.C., quando i legami con i popoli celtici, maestri nella lavorazione del legno, divennero più attivi e si preferì la "botte", che determinò anche una variazione delle misure del vino.
Il fusto di legno con cerchi di ferro divenne così il contenitore privilegiato, facilmente trasportabile anche da due soli uomini e caricabile anche sui carri. Questi recipienti furono chiamati "piti" da Strabone. La stessa colonna traiana mostra botti su carri e carrette.
Da questo momento le anfore furono quindi sostituite con le botti per un più facile trasporto terrigeno forse a minor costo.
Come i Greci avevano portato la vite nell'area mediterranea, così i Romani la trasmisero nel resto dell'Europa, anche se i vini ricavati avevano altre caratteristiche e soprattutto erano meno dolci. Essi portarono la vite in Provenza, nel Nord della Francia, in Germania, sul Reno e sulla Mosella. Utilizzando il Rodano giunsero anche sul Danubio. L'estremo confine nord della viticoltura in epoca romana sembra essere stato in Inghilterra, dove il vino era popolare prima della conquista romana, ma non vi sono prove certe che vi fosse già coltivata la vite.
Equivalente romano del "Symposium" greco era il “Convivium”. Esso indicava il vivere insieme e quindi le donne erano ammesse liberamente ed il vino più che il filosofeggiare era l'argomento principale della riunione. Gli schiavi lo servivano travasandolo dalle pesanti anfore nei crateri ad imboccatura larghissima. Con imboccatura più piccola erano gli stamnos. I crateri contenevano già l'acqua per allungare il vino. La quantità di miscelazione veniva determinata da un Arbiter, scelto tra i commensali. Per versare il vino nei calici dai crateri, i pocillatores usavano vari tipi di recipienti: il simpolum un mestolo a manico lungo, ben presto sostituito dal cyathus, una tazza con manico che permetteva di attingere senza bagnarsi le dita, dall' olpe, molto simile ad una nostra attuale caraffa da acqua, e dall' oinochoe, che aveva un'imboccatura a orlo trilobo. Il vino veniva bevuto in coppe e kantharos, i bicchieri classici dell'antichità greco-romana. La kylix era una coppa a tazza larghissima, su esile piede. Il nostro bicchiere era conosciuto a Roma, non in Grecia: il poculum nacque tra il 900 ed il 500 a.C. Esso fu il più umile dei vasi potori romani, ma il più economico e per questo sopravvisse anche alle crisi barbariche del primo Medioevo, giungendo fino a noi.
Elementi del Symposium
Nei primi due secoli dell'Era Cristiana, l'Italia diventò il maggiore importatore di vino dell'Impero facendolo pervenire dalla Grecia, dalla Spagna e dalla Gallia. Ma i costi incominciavano a superare i profitti: la Spagna stava cominciando a diventare un grosso produttore di vino, mentre la qualità italiana incominciava a declinare. Sul "De re rustica", scritto verso il 65 d.C. da Lucio Giunio Moderato Columella, troviamo il quadro più completo della viticoltura romana. A parte verso nord, non c'era più alcuno sbocco per il commercio vinicolo italiano, là dove si aveva rubato terreno per produrrre vino a scapito della produzione di grano e procurando fame a tutto l'Impero.
Per disciplinare la produzione agraria, Domiziano emanò un editto in cui si proibiva di piantare nuove viti in Italia, ordinando di tagliare i vigneti nelle Province, conservandone al massimo la metà. Vietò altresì di piantare anche piccoli vigneti nelle aree urbane italiane. Pare comunque che il Decreto di Domiziano, nato come misura politica, non sia mai stato effettivamente applicato.
Nel 280 l'Imperatore Probo abolì l'editto di Domiziano, dando però una forte spinta allo sviluppo dell'agricoltura. Gli ultimi tempi dell'Impero concentrarono nel nord i più ampi poteri. Ad esempio Treviri fu fatta capitale dell'Impero d'Occidente, dominando una regione che andava dal nord della Britannia al Nord Africa. E' probabile che anche qui i Romani abbiano piantato viti in questo freddo avamposto, benchè fosse un fiorente centro commerciale anche per i vini dell'Impero.
Anche molti vigneti della Valle della Loira furono piantati nel IV° secolo.
Nell'ultimo scorcio dell'epoca imperiale romana, il vino stava ormai diventando sempre più simile a quello che noi beviamo attualmente.