Dall'Indipendenza alla fine.

Un manifesto segno della sua aspirazione all'indipendenza Gioacchino l'aveva dato negli ultimi mesi del 1810 addirittura sostituendo la bandiera francese con un "suo" vessillo nazionale, bianco, rosso e amaranto. Il 14 giugno del 1811 diede un altro segno di questo desiderio: pubblicò un decreto in cui stabiliva che tutti gli stranieri impiegati nel regno dovevano naturalizzarsi sudditi napoletani.
Napoleone, sospettoso, teneva d'occhio il cognato e aveva mandato a Napoli con il titolo di ministro plenipotenziario di Francia il barone Durant, in apparenza per regolare tutte le questioni pendenti con il regno, in effetti era per sorvegliare il Re. Appena fu informato del decreto ne pubblicò un altro (6 luglio) con il quale, visto che "…il reame delle Due Sicilie fa parte del grande Impero, che il Principe da cui è retto è francese e gran dignitario dell'Impero e che egli è stato posto e "mantenuto" sul trono dai Francesi…", stabiliva Napoleone che tutti i cittadini francesi fossero di diritto cittadini napoletani e che su di loro non si doveva applicare il decreto Murat del 14 giugno. Nello stesso tempo sottrasse il supremo comando di Gioacchino, mettendo l'esercito francese sotto la direzione del Grenier e gli assegnò il singolare nome di "Corpo d'osservazione dell'Italia meridionale". Ordinò inoltre che lo stesso si stanziasse non a Napoli, ma fra Capua e Gaeta, e meglio ancora se occupava interamente su quest'ultima la fortezza. Forse sospettoso com'era, Napoleone non si fidava troppo delle "truppe napoletane" che il cognato comandava.
Gioacchino si lamentò genericamente, ma non abbandonò il pensiero di sbarazzarsi di tutti quei funzionari che non avevano chiesto la cittadinanza napoletana. Cominciò infatti a licenziarne alcuni, fra cui il ministro della guerra D'Aure ed il maresciallo di palazzo Lanusse, suscitando le proteste del Durant. Il Re rispose che non dal decreto del 1806, ma dallo Statuto di Bajona erano tracciati i suoi doveri verso l'Impero. Allora il Grenier, forse ancora più sospettoso di Napoleone, occupò Gaeta, mentre il maresciallo Pérignon si affrettò a ritornare da Parigi per riprendere il suo ufficio di Governatore a Napoli.
Il Pérignon aveva, anche l'incarico di far capire a Gioacchino che se egli era re di Napoli, Napoleone era l'Imperatore e che la corona gli era stata data "…per l'interesse della Francia e della politica del grande Impero…". Era come affermare che Gioacchino era un re vassallo o meglio un prefetto imperiale.
In una lettera in data del 30 dicembre 1811 il Ministro francese degli esteri Maret spiegava chiaramente al Marchese di Gallo ciò che era il Re di Napoli: un grande feudatario dell'Impero.
I dissidi tra i due cognati continuarono, ma per il momento senza carattere di gravità. Gioacchino era uno spirito irrequieto ed avventuroso e non voleva essere solo un funzionario imperiale, ma la potenza di Napoleone e l'incertezza della politica internazionale tenevano a freno i suoi desideri d'indipendenza. Ma appena la fortuna volgerà le spalle al cognato, il Murat si schiererà contro di lui; ora è dominato dall'Imperatore e pensa che la sua sorte sia legata a quella del grande Còrso.
Semplicistica, d'altra parte, la tesi, sostenuta da una certa critica storica, che Murat fu salvo unicamente perchè necessario all'Imperatore nella progettata campagna di Russia: altre e più importanti considerazioni, di ordine squisitamente politico, suggerirono pazienza e clemenza a Napoleone, ormai a corto di collaboratori nell'ambito strettamente familiare.
Napoleone gli riconobbe sempre grande bravura ma poca intelligenza, estrema insicurezza e grande esaltazione.
Perciò, nonostante tutto, quando Napoleone dichiarò guerra alla Russia, Gioacchino Murat partì con undicimila uomini per andare a "prendere il suo posto" nelle file della Grande Armée. La raggiunse a Thorn il 3 giugno 1812 ed ebbe il primo combattimento ad Ostrowno, dove le perdite francesi furono 187 contro qualche migliaio di Russi. Dopo i primi combattimenti l'esercito russo arretrò e non accettò più lo scontro faccia a faccia. Napoleone non sapeva se fermarsi organizzando le posizioni, aspettando che passi l'inverno, o proseguire fino ad arrivare ad uno scontro decisivo e definitivo. L’ 8 agosto ricominciò l'avanzata francese e in questa fase non ci furono che modesti scontri. Finalmente il 7 settembre la Grande Armata arrivò a contatto con l'esercito russo ed ancora una volta Murat dimostrò tutto il suo coraggio nella battaglia di Borodino (o Battaglia della Moscova). Murat entrò quasi indisturbato a Mosca; spettò a lui inseguire l'esercito russo e poi ritornare al Cremlino dove lo attendeva l'Imperatore, in una Mosca per tre giorni in fiamme.


Murat alla Battaglia di Borodino.

I francesi, dopo aver atteso invano lo scontro diretto, iniziarono a subire le violente cariche dei Cosacchi; incominciò così la lenta e tormentata ritirata, che si concluse in una completa disfatta per il sopraggiungere del gelido inverno russo.
Nella campagna di Russia, comunque, Murat, a capo della cavalleria, diede, ancora una volta, prova della sua bravura: distintosi nella battaglia della Moscova, sconfitto a Vinkovo (18 ottobre 1812), comandò, durante la ritirata, lo “squadrone sacro”, scorta dell'imperatore, il quale, prima di ripartire per la Francia, gli affidò il comando dell'esercito (5 dicembre 1812): comando che, nel gennaio 1813, Murat affidò, a sua volta, al principe Eugenio. Murat avendo visto l'impossibilità di sanare una situazione ormai compromessa, raggiunse Caserta il 31 gennaio 1813 e ritornò ufficialmente a Napoli il 4 febbraio dove negoziò segretamente con l'Austria. Combattè tuttavia a Dresda (26-27 agosto 1813) e a Lipsia (16-19 ottobre 1813) contro gli Austriaci; poi, ritornato a Napoli nel mese di novembre, stipulò un trattato con l'Austria e con la Gran Bretagna.
L'11 gennaio 1814 Murat firma con il rappresentante dell'Austria Generale Neipperg la Convenzione di Napoli, con la quale garantisce la disponibilità di 30.000 uomini ed ottenendo per la sua dinastia il riconoscimento della sovranità sui territori posseduti in Italia. In questa fase non sono chiari gli intendimenti del Re di Napoli che spera in un riconoscimento ufficiale dell'Austria, ma non lascia l'aggancio con Napoleone e non perde l’idea della possibilità di fare dell'Italia un unico stato.
Napoleone è sconfitto e Parigi conquistata; il Re di Napoli, malgrado l'aver affrontato l'esercito francese, non viene tuttavia considerato un alleato né dagli austriaci, né dagli inglesi.
Essendosi il congresso di Vienna pronunciato per la restaurazione dei Borboni sul trono di Napoli, Murat rompe le relazioni con l'Austria e, dopo avere di nuovo aderito a Napoleone, fuggito nel marzo 1815 dall'isola d'Elba, marciò con un corpo d'esercito verso nord. Aveva deciso di diventare il liberatore dell'Italia.
Non avendo l'appoggio delle potenze europee e non essendo ancora matura la coscienza del popolo italiano, l'idea appare difficile da realizzare e troppo prematura.
Murat, convinto delle sue idee, forte di un esercito composto da circa 40.000 uomini, non tutti di provata esperienza, ma con generali valorosi come Lechi, Pepe, Caracciolo, D'Ambrosio e Pignatelli, inizia la conquista dell'Italia Settentrionale. Il 19 marzo raggiunge Ancona, dove la folla lo acclamerà Re d’Italia. Il 27 marzo ha il primo scontro con l'esercito Austriaco ed il 30 marzo 1815 per la prima volta nella storia della nostra nazione un documento, il Proclama di Rimini, inneggia all'Unità d'Italia ed esorta gli italiani a combattere per raggiungere tale nobile scopo.


Il Proclama di Rimini

Il 3 aprile Bologna è conquistata, poi Cento e Ferrara ma, dopo la mancata conquista di Occhiobello e le sconfitte delle divisioni occupanti la Toscana, l'esercito murattiano si vede costretto a ripiegare ed il 29 aprile è di nuovo ad Ancona. Decide di accettare lo scontro a Tolentino, essendo il punto migliore per dividere con la maggiore distanza possibile le due armate austriache che lo inseguono e per poterle sconfiggere affrontandone, come prevedeva la tattica napoleonica, una alla volta.
A causa degli scontri e delle diserzioni l'esercito napoletano è ridotto a circa 15.000 uomini affamati e stanchi mentre quello austriaco è composto da circa 12.000 uomini ben equipaggiati. Il 2 e 3 maggio 1815 i comuni di Tolentino, Monte Milone (oggi Pollenza) e Macerata vedono lo scontro delle due Armate, che termina con la ritirata dell'esercito napoletano e con la definitiva conclusione del sogno murattiano di arrivare all'indipendenza italiana. Il Castello della Rancia fu il principale teatro della battaglia in cui le truppe austriache, comandate dal Generale Barone Federico Bianchi sconfissero le truppe napoletane del Murat.
Maggiori dettagli sulla battaglia di Tolentino si possono trovare sul Volume “La Battaglia di Tolentino e la Campagna di Murat”, Atti della Conferenza nell’Aula Magna dell’Università di Macerata, 27 settembre 1996.

Il 18 maggio Murat è di nuovo a Napoli, ma è costretto a fuggire subito per la venuta degli Austriaci. Con la proclamazione della sua decadenza dal trono ( “convenzione di Casalanza”, 20 maggio), Ferdinando IV° di Borbone rientra a Napoli (9 giugno).
Murat raggiunge Cannes il 25 dello stesso mese e qui apprende che ormai non è più il Re di Napoli. Anche Napoleone, rientrato a Parigi dopo i “cento giorni” si rifiuta di incontrarlo.
Rifugiatosi in Corsica dopo Waterloo (18 giugno), chiede invano asilo in Gran Bretagna; poi, raggiunto da un'esigua schiera di seguaci, tenta di recuperare il trono perduto, illudendosi di poter contare su una popolarità ormai tramontata, respingendo la proposta di Metternich di raggiungere, indisturbato, Carolina a Trieste.
Avute notizie (sicuramente non fondate se non false per attirarlo in una trappola) che la situazione a Napoli è favorevole ad un eventuale suo ritorno; Murat, nella notte tra il 28 e 29 settembre 1815, lascia la Corsica dalla rada di Ajaccio. Salpò per la Calabria, con sei barche a vela, quattro delle quali vennero distrutte dalla tempesta mentre un altra abbandonò, a un certo punto, l'impresa. Sbarcato l'8 ottobre a Pizzo con soli trenta uomini, fu quasi subito catturato da un Capitano borbonico di nome Trentacapilli.


Il Capitano Trentacapilli che arrestò a Pizzo Gioacchino Murat ed
il Generale Nunziante che fu il Presidente della Commissione giudicante.

Il Generale Nunziante, Capo militare della Calabria, informò Napoli dell’arresto. Fu immediatamente nominata una Commissione di sette membri per giudicarlo quale "nemico pubblico", secondo i desiderata del Re Borbone. Ferdinando accordò “trenta minuti”, e Murat rammentando i suoi processi che si svolgevano allo stesso modo, capì che erano i suoi ultimi istanti di vita. Il 13 ottobre, condannato da una corte marziale, venne fucilato alle ore 21 entro le mura del castello. Mor&eigrave;, colpito da sei palle di fucile, come uno dei tanti "briganti francesi", ucciso dai borbonici, come quando lui e lo spietato Manhès catturavano e fucilavano uno dei tanti "briganti borbonici". Di lui il Conte Agar di Mosbourg disse che fu un uomo che "seppe vincere, seppe regnare, seppe morire".


Potè scrivere ancora una lettera alla moglie ed ai figli; poi le sue ultime parole al plotone di esecuzione schierato su due file fu: ”Soldati, mirate al cuore, salvate il viso”. Ma una pallottola “tragicamente dispettosa” gli squarciò la guancia destra.
Venne seppellito nella fossa comune della chiesa di S. Giorgio, che lui stesso aveva fatto edificare.

La fucilazione.

L’atto di morte venne fatto firmare, quali testimoni, da due facchini analfabeti, che apposero un segno di croce. Felice di essersi sbarazzato di un così pericoloso rivale, Ferdinando di Borbone insignì Pizzo del titolo di fedelissima e concesse al Nunziante il feudo e il titolo di Marchese di San Ferdinando di Rosarno.

La figura di Murat è complessa e non facilmente valutabile, specialmente in rapporto agli avvenimenti italiani: certo il suo acume politico non fu pari al suo coraggio e alla sua foga impulsiva, ma sono indiscutibili certe doti di generosità e di buon volere nei riguardi dei sudditi, oltre a un generico spirito liberale che ne animò taluni orientamenti.
Inoltre fino al 1861 a Napoli rimase il Murattismo, fin quando cioè venne coronato il sogno di Gioacchino: l'Unità e l'Indipendenza dell'Italia.

A testimonianza del fascino che ha avuto questo personaggio sui patrioti italiani basterà ricordare che Giuseppe Garibaldi, risalendo la penisola nel 1860 dopo lo sbarco dei Mille, rese omaggio a Pizzo di Calabria alla memoria di Murat e inviò “ad una carissima amica”, la Marchesa Pepoli, pronipote di Gioacchino, una delle pallottole che uccisero Murat. "Mando a Lei” scrisse “la palla che tolse ai viventi il prode dei prodi, il valorosissimo vincitore della Moscova, Murat, Re di Napoli”.




ADDENDA

Il giorno 17 giugno 2005 ho ricevuto un documento estremamente interessante riguardante la fine del Regno di Gioacchino Murat ed il ritorno della dinastia Borbonica.

IL TRATTATO DI CASALANZA: 20 MAGGIO 1815
In questo luogo poco conosciuto di Terra di Lavoro il 20 Maggio 1815 fu stipulato tra l’esercito austriaco e quello napoletano del Murat il trattato che pose fine al decennio napoleonico nel Regno che era stato di Ferdinando. Per mezzo di esso Francesco I d’Asburgo fu in grado di riconsegnare lo Stato all’alleato Borbone, spodestando definitivamente Gioacchino Murat, il cui esercito dopo la sconfitta di Tolentino era ormai in fuga. La convenzione fu sottoscritta, per i Napoletani, da Pietro Colletta, plenipotenziario del Generale in capo Michele Carascosa; per gli Austriaci, da Adamo de Neipperg, plenipotenziario del Generale in capo Federico Bianchi (in seguito per riconoscenza nominato dal Borbone duca di Casalanza) e da lord Burghersh, ministro plenipotenziario di Sua Maestà britannica presso la corte di Toscana. Fu così che – dopo accese discussioni – nella neoclassica galleria di casa Lanza vennero ceduti agli alleati tutti gli arsenali e le piazzeforti del Regno, con la temporanea eccezione di Gaeta, Pescara e Ancona, in sostanza riconsegnando quest’ultimo a Ferdinando IV.
Ritroviamo traccia dell’evento in un articolo dell’epoca apparso su “Il giornale delle Due Sicilie”: Alle ore 8 del 20 Maggio 1815 [si riunirono] i Generali in capo delle due armate, Bianchi e Carascosa; il ministro inglese Lord Burghersh;i plenipotenziarii Generali Neipperg e Colletta. Le trattative si protrassero per 9 ore con 13 articoli... Col Trattato vi fu cessazione della guerra nel Regno di Napoli; il cambiamento del Governo, non per Rivoluzione di interessi o di Fortuna, ma per placida evoluzione di nomi e di forme…l’arbitrio di ognuno di restare o di partire… Ferdinando IV per il Congresso di Vienna (I ottobre 1814 – 9 giugno 1815) e per il Trattato di Casalanza (20 maggio 1815) riebbe il Reame, dove entrò trionfante su di un bianco destriero il 17 giugno 1815. L’anno dopo (8 dicembre 1816) assunse il nome di Ferdinando I (delle Due Sicilie). Nella convenzione veniva tra l’altro sancito lo scambio dei prigionieri, il riconoscimento del debito pubblico e garantita la nobiltà insieme a gradi, onori e pensioni dei militari che avessero giurato fedeltà al Borbone.
Copia dello storico trattato – menzionato dal Colletta nella sua Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825 - è conservata nella biblioteca del Museo Campano a Capua.
E’ possibile rileggere la Storia in una dimensione non solo pubblica, ma privata: la casa ove fu ratificato il cd. Trattato di Casalanza – temporaneamente requisita dagli Austriaci – sorgeva su di un’ antica masseria, della quale il barone Biase Lanza (1746 – 1832), cavaliere dell’Ordine di Malta, ampliandola nel 1794, aveva fatto una residenza di campagna dal disegno sobrio, non lontana dal suo palazzo di Capua. La casa, che faceva parte di un complesso comprendente anche una taverna ed una cappella, fu in realtà un dono alla sua prima moglie, donna Giuseppina, che amava spesso recarsi lì: …Nell’anno 1794, essendo sempre stata portata la B. anima della prima fu cara moglie mia a star fuori alla masseria allo Spartim.to di Roma dove vi era una picciola abitazione, per cui volendo secondare la sua inglinazione e piacere, giacchè per le sue qualità rare e sante e per il coniugale amore che per me avea, meritava tutto; vi fabricai il casino che vi esiste, che in tutto, compito interam.te di pitture, quadretti con lastre, mobili nuovi, letti, portieri e tutto altro che vi fu di bisogno vi spesi docati 4671: 55. A riprova di come lo storico evento ebbe per l’antenato un risvolto “negativo”, restano alla famiglia le sue memorie scritte ove - tra l’altro – si apprende dell’ amarezza per la distruzione del l’ arbosto e dell’ oliveto che i Tedeschi (cioè gli Austriaci) avevano provocato accampandosi nella tenuta!
La casa si trova a tre miglia da Capua, in località Spartimento di Roma, nel territorio di Pastorano (Caserta), sin da un lontano 1568, anno in cui don Ippolito Lanza, patrizio capuano - di lì a poco nominato regio Capitaneo della città di Foggia - l’aveva acquistata e sottoposta a fedecommesso,ovvero un diritto di maggiorasco, così come già era per la casa di Capua.


Casalanza, trattato 20 maggio 1815

Oggi non ne sopravvivono che eloquenti resti, travolta dalla furia devastatrice dei militari tedeschi in ritirata. Andò tra l’altro distrutto il tavolo su cui era stata firmata la convenzione, assieme al calamaio originario, a testimonianza di come la Storia possa – con la stessa casualità – innalzare e cancellare un medesimo luogo.
La foto è dei primi del ‘900: l’epigrafe sul cancello fu apposta nel 1892 dalla Provincia di Terra di Lavoro perché si potesse agevolmente e velocemente leggere dai passeggeri della Roma - Napoli, i cui binari s’intravedono nell’immagine!

LA CAPPELLA DI S. ANNA
Dell’antico complesso di Casa Lanza sussiste la cappella di S. Anna, eretta nel 1712 dal nonno del barone Biase, il suo omonimo Biagio I Lanza (1686 – 1732). Dalle memorie si è appreso che nel gennaio 1799 - all’alba della Repubblica Partenopea - casa Lanza era stata già occupata per otto giorni dalle truppe francesi giacobine che assediavano Capua (ma lo fu anche dalle truppe di Caracciolo di Roccaromana e di Leone di Tora): dopo aver barbaramente bruciato l’altare, il quadro di S.Anna e la porta della cappella, i Francesi ne fecero una stalla.
La cappella – inaugurata con una solenne S. Messa il 31 dicembre 1712 - rientra oggi nella diocesi di Teano – Calvi, parrocchia di S.Secondino (Pastorano): da sempre viene concessa al culto pubblico.
Prospiciente la strada Statale Appia tra Capua e Teano, il 27 maggio 1729 essa accolse Papa Benedetto XIII (Orsini) che da Benevento - ove era ancora vescovo – faceva ritorno a Roma. Il Pontefice stabilì, in perpetuo, indulgenze plenarie annue per chiunque si fosse recato lì a pregare il 26 luglio, giorno di S.Anna. A ricordo don Biagio pose una lapide oggi conservata nella casa di Capua.




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